La proposta avanzata è invece tanto banale quanto inconsistente: una corsa a colmare il disavanzo cronico del paese con il rilancio della “crescita”, senza entrare nei dettagli per specificare che tipo di crescita. Ne sono esclusi, o comunque non nominati, redditi da lavoro, pensioni, welfare, ricerca, istruzione, equità sociale; aleggia sullo sfondo solo il pil, dal cui aumento si sottintende che lo stato italiano dovrebbe ricavare le maggiori imposte (neanche loro nominate: caso mai qualcuno pensasse di riscuoterle subito, magari con una “patrimoniale” sulle fortune accumulate da buona parte degli estensori e firmatari di quel manifesto, e dei loro colleghi) con cui affrontare il deficit. La creazione di nuova occupazione viene nominata per ultima, al fondo del documento: quasi fosse una conseguenza automatica della “crescita”; senza tenere conto del fatto che le aziende che più crescono, soprattutto in Borsa, e grazie a operazioni finanziarie come quelle di cui Sergio Marchionne si è dimostrato maestro, sono quelle che si sbarazzano di più e più in fretta dei lavoratori in esubero. Ancora più stringato appare il “manifesto” quanto a indicazioni sul “come” rilanciare la crescita: tanto da far fare persino una bella figura a Giulio Tremonti, appena dimessosi dal suo ruolo di inquilino a sbafo, o “in nero”, di un appartamento pagato con appalti truffaldini a spese dell’erario di cui il ministro è custode. Il quale ha dovuto ricordare che “i bilanci dello stato si fanno per legge, mentre il pil no”.
Dunque, la ricetta proposta per promuovere la crescita, oltre alla “discontinuità”, che vuol dire fare a meno di Silvio Berlusconi, è il coinvolgimento di “tutte le parti sociali” e “una grande assunzione di responsabilità da parte di tutti”. Per scendere nei dettagli, cosa che il “manifesto” non fa, le ricette finora proposte per rilanciare la crescita sono state privatizzazioni e liberalizzazioni, come se la crescita fosse uno stato normale dell’economia, a cui solo i “lacci e lacciuoli” dello stato e delle corporazioni impedissero di dispiegarsi; oppure – seconda opzione – un piano di grandi interventi infrastrutturali, magari finanziato dall’Ue: che di questi tempi vuol dire Tav, ponte sullo stretto, (nucleare no – peccato! – perché bisogna rimandarlo di qualche anno, ma in compenso si può riempire il paese di centrali termoelettriche (soprattutto a carbone o a biomasse, ricavate deforestando il Borneo) visto che la potenza elettrica dell’Italia è già al doppio del fabbisogno. L’ultima new entry nel settore (autore Giuliano Amato) è più semplice: “Lavorare di più”. Non lavorare tutti, creare nuova occupazione, offrire continuità ai precari; bensì far lavorare di più chi già lavora.
La verità è che la crescita, soprattutto quella senza ulteriori determinazioni, più che un mito è ormai solo un alibi per giustificare ogni forma di sopruso nei confronti tanto di chi lavora quanto di chi è senza lavoro. Non è di crescita che ha bisogno l’Europa, né in Italia, né in Grecia, né in Portogallo o in Irlanda – e meno che mai in Germania – ma di equità, di redistribuzione di redditi e di lavoro, di investimenti in settori e produzioni, come l’efficienza energetica, le fonti rinnovabili, l’agricoltura ecologica e a chilometri zero, la mobilità sostenibile, il risanamento degli edifici, degli assetti urbani, del territorio, la ricerca e l’istruzione: tutte cose che non potranno mai essere promosse senza fare i conti con la finanza internazionale che sta strangolando la vita di milioni di cittadini in tutta Europa.
Fonte: http://www.ilfoglio.it/soloqui/9874
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