giovedì 31 luglio 2008

Liberamente tratto dall’articolo ‘Ribelli e ribellione’ di Alain De Benoist.

Il ribelle, il rivoltoso e il rivoluzionario incarnano tutti e tre una legittimità che si oppone alla legalità dell’ordine costituito. Ma tra di loro vi sono anche delle differenze.
Il rivoltoso appartiene senza alcun dubbio a tutte le epoche, e il nostro passato ne è testimone. La storia della Francia e dell’Europa può infatti leggersi come un susseguirsi quasi ininterrotto di rivolte popolari, movimenti di protesta e insurrezioni.
Di generazione in generazione, ci si rivolta contro la tirannia, contro la pressione fiscale, contro l’ingiustizia sociale, l’assolutismo o i poteri costituiti.
Il rivoluzionario appare invece in circostanze storiche molto particolari. Rispetto al rivoltoso, presenta soprattutto due grandi tratti caratteristici: da una parte è dotato di una coscienza ideologica molto più forte, dall’altra manifesta un’esigenza di trasformazione molto più radicale. Ecco perché si oppone a ciò che considera come puramente istintivo, se non ingenuo, nella semplice rivolta. Ed ecco perché, allo stesso modo, rifiuta ogni riformismo, contrapponendo all’ideologia dominante una visione del mondo diversa.
Accanto ai rivoltosi ed ai rivoluzionari, ci sono anche i dissidenti, i liberi pensatori e i non credenti, i fondatori di samizdats ante litteram, le vittime dei cacciatori di streghe e dei tribunali della Santa Inquisizione, tutti coloro che nel corso della storia sono stati perseguitati, censurati, imprigionati per anticonformismo rispetto alle ortodossie del momento – tutti coloro che, secolo dopo secolo, si avvicendano e comunicano, formando una lunga catena fraterna i cui anelli sono le parole d’ordine del pensiero libero. Tutti questi sono già dei ribelli, e continuano ad esistere al giorno d’oggi. Sono coloro che disturbano, coloro di cui i guardiani del pensiero unico hanno deciso di non parlare; se non sono imprigionati, sono messi al bando. Le loro pubblicazioni sono a malapena tollerate, in ogni caso emarginate, condannandoli in questo modo alla morte mediatica e sociale.
Alla pari del rivoltoso, il ribelle rifiuta l’ordine dominante del mondo in seno al quale è stato gettato. Come il rivoluzionario, lo rifiuta in nome di un altro sistema di valori, di una concezione del mondo che trova in se stesso e di cui si fa portatore. Tuttavia, al contrario del rivoltoso o del resistente, il ribelle trae innanzitutto da se stesso ciò che anima il suo atteggiamento. La rivolta è legata ad una situazione, ad una congiuntura che ne è la causa, e si spegne nel momento in cui tale causa sparisce e la situazione cambia. La ribellione invece non è legata solamente alle circostanze, ma è di ordine esistenziale. Il ribelle sente fisicamente ed istintivamente l’impostura. Rivoltosi si diventa, ma ribelli si nasce.
Il ribelle è ribelle perché ogni altro modo di esistere gli è impossibile. Il resistente cessa di resistere quando non ha più i mezzi per farlo. Il ribelle, anche in prigione, continua ad essere un ribelle. Ecco perché se può dirsi perdente, non può mai dirsi vinto. Non sempre i ribelli possono cambiare il mondo. Ma mai il mondo potrà cambiare i ribelli.Il ribelle può essere attivo o contemplativo, uomo di cultura o d’azione. Sul piano strategico, può essere leone o volpe, quercia o canna. Ci sono ribelli di ogni sorta, e ciò che hanno in comune è una certa capacità di dire no. Il ribelle è colui che non cede, colui che rifiuta, colui che dice: non posso. È colui che disdegna ciò che cercano gli altri: gli onori, gli interessi, i privilegi, il riconoscimento sociale. Al tavolo da gioco, è colui che non gioca. Lo spirito del tempo scivola su di lui come pioggia sui vetri. Spirito libero, uomo libero, per lui non c’è nulla al di sopra della libertà. È la libertà stessa. «È ribelle, scrive Jünger, chiunque sia messo in rapporto con la libertà dalla legge della sua natura».
Di fronte ad un mondo per il quale non prova altro che un divertito disprezzo o un dichiarato disgusto, il ribelle non può limitarsi all’indifferenza, essendo essa ancora troppo vicina alla neutralità. Il ribelle è fatto per la lotta, sia essa anche senza speranza. Il ribelle si sente straniero al mondo che abita, ma senza mai smettere di volerlo abitare: sa che non si può nuotare contro corrente se non a condizione di non abbandonare mai il letto del fiume. La distanza interiore che lo caratterizza non lo conduce a rifiutare il contatto, poiché sa che il contatto è necessario alla lotta. E se fa «appello alle foreste» per riprendere un’espressione conosciuta, non è per rifugiarvisi – anche se spesso è in esilio –, ma per riprendere forza.
D’altra parte, scrive ancora Ernst Jünger, «la foresta è dappertutto. Ci sono foreste nel deserto così come nelle città, foreste in cui il Ribelle vive nascosto dietro la maschera di qualche professione. Ci sono foreste nella sua patria, così come in ogni altro suolo in cui si può concretare la sua resistenza. Ma ci sono soprattutto delle foreste nelle retrovie del nemico». Se ciò che distingue il rivoluzionario è la volontà di raggiungere uno scopo, il ribelle incarna innanzitutto uno stato d’animo ed uno stile. Ciò non toglie che sappia anche fissarsi degli obiettivi. Nei confronti del mondo che lo circonda, nei confronti del “corso della storia”, della congiuntura, si sforza di identificare e cogliere il momento favorevole. Per rompere l’accerchiamento, per tentare di introdurre un granello di sabbia nell’ingranaggio, ragiona su situazioni concrete. In questo è innanzitutto mobile. Mobilita il pensiero, e fa uso di un pensiero mobile. Non è soldato, ma partigiano. Non resta dietro il fronte – sa attraversare tutti i fronti.


NO SURRENDER!

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